Li chiamavano “o’ femminiélli” ed erano uomini, travestiti e truccati a tutto punto, che presentavano espressività sensibilmente effeminate. Un mix di barba, tacchi e rossetto per una figura che si annodava tra ideologismi antropologici e tradizioni popolari.
Insomma, o’ femminiéllo è stato certamente un emblema pieno di storia e di folclore.
O’ femminiélli erano personaggi della vita di comunità che, sebbene d’ambigua identità, erano riusciti a ritagliarsi un ruolo di approvazione sociale, tanto da essere accettati, sia dagli uomini che dalle donne, sopratutto nello spaccato della cultura popolare partenopea, ma non solo.
Ad oggi, potremmo accostare la sua metaforica figura al transgender oppure avvicinarlo alle moderne icone drag, ma questa sua antica attinenza al terzo sesso è sempre stata autorizzata e rispettata senza vergogna e pudicizia. E anche se ambigua, tanto che l’identità del femminiéllo ha sempre avuto un certo fascino.
Il termine “femminiéllo“, conosciuto anche come “femmenélla” o “femminéllo”, in un’etimologia senza discriminazioni, si riferisce ad un uomo con espressività muliebre. Lo stesso lemma deriva dal latino “fémmina” con il significato di “colei che allatta”.
Pare, infatti, che l’allegoria di o’ femminiéllo prenda ispirazione dalla figura dell’ermafrodita che, considerata sacra già nell’antica Grecia, rappresentava sia la parte maschile che femminile, ossia la dualità del Creato, un mix tra forza e fascino. E così anche nel femminiéllo esiste questa doppia natura dove la fisicità maschile si miscela alla sensibilità femminile. Il tutto farcito da una trasfigurazione in rosa con tanto di travestimenti, tacchi e trucchi.
In particolare, o’ femminiéllo era una figura che i quartieri popolari partenopei erano riusciti ad integrare nel loro contesto socio-culturale, tanto da godere di una certa popolarità, con le famiglie che affidavano loro la custodia dei propri figli, oppure venivano espressamente invitati alle celebrazioni folcloristiche e religiose di paese.
Addirittura, il giorno della Candelora diveniva un appuntamento di culto speciale per loro, in un rito nominato “a’ juta de’ femminiélli” dove diventavano protagonisti nella glorificazione della Vergine.
Ma o’ femminiéllo veniva affettuosamente canzonato anche come portatore di buona ventura tanto che si era soliti mettergli tra le braccia i neonati. Addirittura esisteva un cerimoniale scaramantico denominato “a’ figliata de’ femminiélli” che consisteva nella simulazione dell’atto del parto da parte di questi uomini effeminati che si dimenavano, tra veli trasparenti e candide lenzuola, mimando i dolori delle doglie con lamenti ed iconiche contorsioni del corpo.
Oltre al sacro ed al casato, o’ femminiéllo veniva tirano in ballo anche per il profano invitandolo a partecipare al gioco della tombola, così come tutti la conosciamo, ma in una rivisitazione scaramantica e spettacolarizzata. Il suo ingaggio, infatti, consisteva in una ritualistica di costume che fosse al contempo chiassosa, sboccata e scurrile dove o’ femminiéllo assumeva un ruolo quasi clericale nella distribuzione dei numeri della buona fortuna.
Insomma, o’ femminiello con il suo effetto apotropaico riusciva a conquistare una certa fiducia sociale, tanto da divenire custode delle riservatezze e dei segreti di quelle borgate italiane entro cui danzava echeggiando tra mantelli appariscenti e fragranze alle rose.
Oggi, invece, quell’emblema con i suoi colori non esiste più. La rivisitazione della figura del femminiéllo è concessa solo agli uomini più anziani dei paesi meridionali che, travestendosi, vogliono rispolverare quelle tradizioni ormai passate e ben diverse dalle etichettature moderne pronte ad inneggiare la fluidità di genere.