Se stiamo vivendo un’esistenza alla luce di un monitor, quindi sempre più virtuale e sempre meno reale e se passiamo più tempo connessi alla rete che con noi stessi, allora è giunto il momento di passare al “piano B”: disintossicarsi dalla tecnologia.
Oggi, infatti, attraverso tablet e smartphone siamo perennemente connessi alla rete delle reti ma, come spesso accade con le sostanze d’abuso, continuando su questa strada asfaltata di megabyte si può arrivare a sviluppare una dipendenza anche dalle tecnologie digitali, raggiungendo livelli definiti come “malattia sociale”. Infatti, il controllare costantemente le e-mail, rispondere su WathsApp e lanciare continue occhiate alle notifiche dei social ci fa diventare tutti «dipendenti tecnologici non patologici», categoria in cui, secondo uno studio del Mental Health Center dell’Università di Glasgow, rientra il 60 per cento della popolazione. In pratica 6 persone su 10. Quindi siamo tutti a rischio.
Gli strumenti tecnologici, però, sono stati creati con l’obiettivo di migliorare la nostra vita quotidiana, invece, come sempre più spesso accade, si stanno rivelando dei boomerang indirizzandoci verso un’attrazione patologica conseguentemente al loro utilizzo compulsivo e fuori controllo. E anche i dati parlano chiaro: il tempo trascorso on line e sui social è stato registrato in 6 ore e 9 minuti al giorno per gli americani e 6 ore e 7 secondi per noi italiani. Troppo tempo. E, oltretutto, l’abuso digitale avviene soprattutto da parte dei giovani, con rischi ancora maggiori, in quanto sono pienamente coinvolti nell’età evolutiva e nella piena fase dell’apprendimento collegato sia alle modalità di contatto sociale reale che alle capacità di controllo degli impulsi e delle emozioni. Da qui, poi, scattano tutte quelle fasi d’allarme che vanno dal trascurare lo studio, all’affrontare di malavoglia ogni lavoro, ad intaccare le relazioni interpersonali fino ad inquinare i rapporti familiari.
E’ pur vero, però, che il fatto di utilizzare costantemente tablet, telefonini e altre diavolerie tecnologiche non ci permette di percepire immediatamente quel sottile e pericoloso confine diagnostico tra uso ed abuso. Per questo, nell’individuazione delle problematiche diventa indispensabile tenere sotto controllo sia gli aspetti qualitativi, legati al rapporto con le nuove tecnologie, ma anche quantitativi ossia legati ai tempi e modi di connessione con il virtuale. Questo perché la dipendenza dalla rete, meglio conosciuta nella letteratura psichiatrica con il nome originale inglese di Internet addiction disorder (IAD), è un disturbo da discontrollo degli impulsi. Per capirci è un termine comparabile al gioco d’azzardo patologico.
Inoltre, i rischi legati all’abuso della vita virtuale sono strettamente collegati anche a disturbi fisici dove l’esposizione prolungata può determinare malessere, sbalzi dell’umore, cefalea, disturbi visivi, stanchezza ricorrente, ansia e difficoltà di concentrazione oltre allo scarso desiderio di relazionarsi con gli altri. Ma la troppa tecnologia è un tarlo che può andare ad intaccare anche quelle funzioni mentali interconnesse sia alla sfera individuale che relazionale.
Infatti, una delle principali funzioni psicologiche legate alle cosiddette nuove dipendenze è certamente quella riferita alle distanze nella comunicazione e nelle relazioni. Attraverso una tastiera, un video ed una connessione, infatti, viene creata una “distanza virtuale”, il che significa che possiamo evitare quell’impatto emotivo diretto con i nostri interlocutori, trovando così una risposta alle insicurezze legate alle relazioni, ma anche alla paura del rifiuto e a quei sentimenti di timore decisionale. E, anche in questo caso, sono proprio gli adolescenti che abusano di queste barriere come strumento di difesa per affrontare insicurezze nella comunicazione, sia nella fase iniziale di conoscenza che in quella di trasformazione e gestione delle relazioni. Ecco allora che la “comunicazione virtuale” va a sostituire la “comunicazione reale”, dove computer, smartphone o tablet prendono il sopravvento arrivando a sostituirsi alla concreto.
Altro importante cardine psicologico è quello legato all’abuso che diventa il mezzo per gestire la solitudine, quasi come una sorte di antidepressivo multimediale. In questo senso lo smartphon, per esempio, può diventare il simbolo della presenza dell’altro in un pericoloso scambio soggetto/oggetto. Ma c’è pure il fatto che il “non essere on line” riflette un’esclusione psicologica dal globo relazionale dove scatta l’esigenza, quasi in forma di astinenza, di avere sempre un dispositivo connesso per avere il controllo totale della nostra vita e delle “vite amiche” e dove l’incapacità di staccare viene giustificato con continui alibi. Bello l’esempio che viene preso spesso di riferimento, ossia l’incapacità di riuscire a disconnettersi dalla rete per ragioni che vengono collegate alla sicurezza mentre in realtà, sotto tutto questo, si maschera l’idea di poter tenere sotto controllo paure, insicurezze e fobie.
Infine, c’è una terza funzione legata all’ambito mentale che è quella rappresentata dal fatto che il marchingegno multimediale che abbiamo tra le mani possa essere un mezzo per vivere e dominare la realtà dandoci l’illusione estrema di onnipotenza e di poter superare le barriere spazio-temporali. Il tutto ci rende sempre più approssimativi e si traduce nell’incapacità di riuscire a prendere decisioni, impegni precisi e continuando a rinviare le scelte. Ecco allora che le nostre continue connessioni virtuali diventano delle pezze giustificative sulla nostra non coerenza e poca serietà.
Ma come facciamo allora a difenderci da queste nuove dipendenze vista la difficoltà nell’individuare il confine tra buon uso ed abuso? Psicologi e sociologi dicono che una delle soluzioni sarebbe quella di allontanarsi dalla tecnologia per almeno due ore al giorno togliendo ogni diavoleria elettronica da tavola e a letto. Questo, tra l’altro, è anche il consiglio che Eric Schmidt ha dato agli studenti dell’Università di Boston durante la cerimonia di consegna delle lauree. Il presidente di Google ha invitato i ragazzi ad intrattenere anche rapporti “reali” e non solo “virtuali”, conversando con amici e familiari, evitando così di vivere la vita solo alla luce di un monitor.
Altri esperti, invece, consigliano di tornare alla natura: quella realtà che ci ha creati e che ripristina le nostre capacità. Tre psicologi dell’Università del Kansas, infatti, in una ricerca pubblicata sulla rivista PloS ONE dicono che in soli quattro giorni di vita immersi nella natura, in assenza di computer, smartphone e cellulari, i soggetti di questo studio (56 soggetti di entrambi i sessi con un’età media di 28 anni) hanno migliorato la loro capacità di problem solving del 50%: un’enormità. Quindi, se è vero che le possibilità offerte dalla tecnologia sono infinite è anche vero che l’evoluzione umana non è avvenuta tramite internet, in un villaggio di telefonini, e forse proprio per questo il nostro cervello ha ancora bisogno della natura per ritrovare la sua creatività. L’uomo, infatti, per sua indole è inventivo e sempre alla ricerca di qualcosa che lo faccia crescere e lo migliori. È quindi normale essere attratti dal virtuale che non distrugge ma amplia, ovviamente se usato in modo adeguato. Quindi la soluzione è solo una e si chiama moderazione.
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